ALLA
TAVOLA DELL'UMANIZZAZIONE
di Enzo Bianchi
DALLA
TAVOLA ALLA...TV. ARRIVA LA BARBARIE.
parte I
Di tutto il mobilio che arreda una casa, la
tavola è forse l'elemento più eloquente. La sua
grandezza, in particolare, dice molto dei padroni di casa: se sono una famiglia
piccola o numerosa, se per loro la tavola è semplicemente un luogo su cui
consumare il cibo oppure uno spazio per stare tutti insieme anche con gli
ospiti. Che tristezza una tavola piccola, alla quale non si possono invitare
«gli altri», una tavola stretta, magari addirittura «a scomparsa». Ricordo che
un tempo la tavola era un mobile di cui essere orgogliosi: in legno massiccio,
collocata come regina al centro della cucina, attirava subito lo sguardo di chi
entrava. Le sue gambe solide e mai traballanti, modellate al tornio oppure
squadrate, colpivano l'attenzione, al pari del suo piano, sempre in vista, che
fosse di marmo o di legno nobile come il ciliegio o il noce, mai avvilito da
una squallida cerata, anzi spesso adornato da pochi, semplici, oggetti
quotidiani che lo riportavano con gusto alla sua essenza di fulcro di
convivialità: un cesto di frutta, una pagnotta e un orcio d'olio, una
composizione di zucche ornamentali... Tutto questo, certo, prima che agli inizi
degli anni Sessanta irrompesse la praticissima iattura dei ripiani in formica.
Avvenne allora un'autentica rivoluzione: tutti si affrettarono a mettere in
cantina o a vendere per pochi spiccioli i vecchi tavoli di solenne austerità
per introdurre esili tavoli come rattrappiti, colorati con tonalità assurde.
Certo, i nuovi oggetti erano lavabili, non richiedevano più la tovaglia, ma nel
contempo smarrivano la loro identità e il loro significato, a volte cedevano
anche la solenne e regale collocazione al centro della stanza, magari per far
posto al vuoto che consentisse di fissare lo sguardo verso il nuovo idolo, la
televisione. Subii a malincuore quel mutamento anche a casa mia, ma con la
netta percezione di assistere a qualcosa che aveva a che fare con la barbarie,
con il venir meno del senso dello stare a tavola. Ed è quanto purtroppo
avvenne...
- la piccolezza del nostro egoismo: alla radice di una convivenza
malata...
- la barbarie nella nostra vita: se violenza e logica di guerra penetrano
nella nostra casa...
- l'idolo della televisione
IL
POTERE E L'ASCOLTO
parte II
La tavola è il luogo attorno al quale si
consuma un rito proprio -fra tutti gli animali- solo all'essere umano: quello
di mangiare insieme e non in competizione con i propri simili. E, mangiando, parlare insieme: la tavola è il luogo privilegiato per
la parola scambiata, per il dialogo: si comunica attraverso il cibo che si
mangia e attraverso le parole che si scambiano. Mentre uno parla, gli altri
mangiano e ascoltano, poi i ruoli si invertono quasi spontaneamente: chi tace
smette di mangiare e inizia a parlare e chi ascolta riprende a mangiare. Forse,
anche a questo serviva l'ingiunzione di «non parlare a bocca piena».
Nessuna idealizzazione però in questa intima
connessione tra il mangiare e il parlare: quando ci si siede a tavola,
mescolato al desiderio e al bisogno di mangiare, c'è anche un sentimento di
aggressività verso l'altro; oppure c'è il mutismo ostile che trasforma lo stare
insieme in fastidio reciproco. Occorre disciplina, consapevolezza
dell'aggressività che ci abita: si tratta di evitare di parlare spinti da ciò
che emotivamente ci domina, di vigilare sull'umanizzazione del nostro rapporto
con il cibo e con la parola. Non a caso la sapienza monastica prescrive di
iniziare i pasti in silenzio, dopo una preghiera di benedizione e
ringraziamento. È un atteggiamento che andrebbe ripreso anche fuori da un
contesto religioso, trovando adeguate modalità per porre una distanza tra sé e
il cibo, per prendere coscienza di non essere i soli o i «primi» attorno a
quella tavola e, di conseguenza, vigilare sulle parole che escono dalle nostre
labbra.
Nella tradizione contadina che ho conosciuto
nella mia infanzia e adolescenza, il capofamiglia quando tornava dal lavoro in
campagna voleva che la tavola fosse pronta e subito si sedeva assieme ai figli,
mentre le donne di casa - che fossero, moglie, nonna o «zietta» - stavano ai
fuochi. Come un animale che cerca di impossessarsi del territorio, il padre
cominciava subito ad aggredire: i figli «perché se lo meritavano», la moglie
perché era in ritardo o aveva trascurato qualche particolare... C'era sempre
una ragione per affermare il predominio del padrone di casa! Poi, dopo i primi
bocconi e il primo bicchiere di vino, cominciava a parlare, lasciando cadere
1'aggressività rituale dell'inizio. La parola fungeva da mediazione tra le
vicende della famiglia e la vita sociale del paese: si rileggevano gli eventi
conosciuti, le storie già raccontate, le notizie apprese nelle occasioni più
disparate; si parlava degli assenti, si esprimevano giudizi sul cibo, su come
era stato cucinato, si metteva a confronto la bontà dei vari alimenti...
- L'arte di ascoltare e dialogare
- vigilare sul nostro parlare
- il potere prende (e tiene) la parola
MAI
SENZA L'ALTRO. i volti...rivolti
parte III
Allora come oggi, se è degna di tal nome,
la tavola si accende quando ci sono invitati. Invitare
qualcuno - parenti, amici, conoscenti... - è un atto di grande fede, di
profonda fiducia nell'altro: significa infatti chiamarlo, eleggerlo,
distinguerlo tra gli altri conoscenti; significa confessare il desiderio di
stare insieme, di ascoltarsi, di conoscersi maggiormente. Chi non pratica
questa ospitalità vive in angustie, vive «poco», mi verrebbe da dire. Non
conosce la gioia che è maggiore nell'invitare che nell'essere invitati.
Occorrerebbe saper invitare senza mai pensare alla reciprocità: l'atto in sé è
ricompensa.
Poter dire in verità «la mia casa è aperta, la
mia tavola non è solo per me e per i miei» significa aprirsi agli altri, dar
loro fiducia, disporsi a lasciarsi arricchire dalla loro presenza, a nutrirsi
di sapienza e di amicizia, a veder dischiudersi nuovi orizzonti. Non si tratta
di fare della propria tavola un «salotto» che esibisca lo status raggiunto,
bensì di saper vivere la fraternità, lo stare insieme, l'amicizia gratuita.
Quando c'è un ospite a tavola cresce la capacità di benedizione e di
gratitudine, cosi che quando giunge il momento dei saluti alla fine del pasto
ci si apre a una promessa orientata al futuro: ci sarà ancora un domani per
ritrovarci, avremo ancora nuove possibilità di incontro...
La tavola è il luogo attorno al quale l’uomo
ha cominciato a fare amicizia, a creare società, a stipulare alleanze. È atto
comunionale per eccellenza. Mangiare è anche il comportamento umano più carico
di simbolismo. Mangiare insieme, offrire il proprio cibo all’ospite, significa
far entrare l’altro in una comunione profondissima con noi. Infatti, “noi
mangiamo ciò che nostra madre ci ha insegnato a mangiare. Non solo – ci ricorda
Leo Moulin – ma tale cibo ci piace e continuerà a piacerci per tutta la vita,
perché noi mangiamo con i nostri ricordi … Anzi, noi mangiamo i nostri ricordi,
perché ci danno sicurezza, conditi come sono di quell’affetto e di quella
ritualità che hanno caratterizzato i nostri primi anni di vita”.
- Invitare l'altro alla mia tavola...
- Chi sperimenta l'ospitalità costruisce il futuro...
- Mangiare per entrare in comunione...