sabato 7 luglio 2012


ALLA TAVOLA DELL'UMANIZZAZIONE


di Enzo Bianchi

DALLA TAVOLA ALLA...TV. ARRIVA LA BARBARIE.             parte I


Di tutto il mobilio che arreda una casa, la tavola è forse l'elemento più eloquente. La sua grandezza, in particolare, dice molto dei padroni di casa: se sono una famiglia piccola o numerosa, se per loro la tavola è semplicemente un luogo su cui consumare il cibo oppure uno spazio per stare tutti insieme anche con gli ospiti. Che tristezza una tavola piccola, alla quale non si possono invitare «gli altri», una tavola stretta, magari addirittura «a scomparsa». Ricordo che un tempo la tavola era un mobile di cui essere orgogliosi: in legno massiccio, collocata come regina al centro della cucina, attirava subito lo sguardo di chi entrava. Le sue gambe solide e mai traballanti, modellate al tornio oppure squadrate, colpivano l'attenzione, al pari del suo piano, sempre in vista, che fosse di marmo o di legno nobile come il ciliegio o il noce, mai avvilito da una squallida cerata, anzi spesso adornato da pochi, semplici, oggetti quotidiani che lo riportavano con gusto alla sua essenza di fulcro di convivialità: un cesto di frutta, una pagnotta e un orcio d'olio, una composizione di zucche ornamentali... Tutto questo, certo, prima che agli inizi degli anni Sessanta irrompesse la praticissima iattura dei ripiani in formica. Avvenne allora un'autentica rivoluzione: tutti si affrettarono a mettere in cantina o a vendere per pochi spiccioli i vecchi tavoli di solenne austerità per introdurre esili tavoli come rattrappiti, colorati con tonalità assurde. Certo, i nuovi oggetti erano lavabili, non richiedevano più la tovaglia, ma nel contempo smarrivano la loro identità e il loro significato, a volte cedevano anche la solenne e regale collocazione al centro della stanza, magari per far posto al vuoto che consentisse di fissare lo sguardo verso il nuovo idolo, la televisione. Subii a malincuore quel mutamento anche a casa mia, ma con la netta percezione di assistere a qualcosa che aveva a che fare con la barbarie, con il venir meno del senso dello stare a tavola. Ed è quanto purtroppo avvenne...

  • la piccolezza del nostro egoismo: alla radice di una convivenza malata...
  • la barbarie nella nostra vita: se violenza e logica di guerra penetrano nella nostra casa...
  • l'idolo della televisione

IL POTERE E L'ASCOLTO                                                               parte II


La tavola è il luogo attorno al quale si consuma un rito proprio -fra tutti gli animali- solo all'essere umano: quello di mangiare insieme e non in competizione con i propri simili. E, mangiando, parlare insieme: la tavola è il luogo privilegiato per la parola scambiata, per il dialogo: si comunica attraverso il cibo che si mangia e attraverso le parole che si scambiano. Mentre uno parla, gli altri mangiano e ascoltano, poi i ruoli si invertono quasi spontaneamente: chi tace smette di mangiare e inizia a parlare e chi ascolta riprende a mangiare. Forse, anche a questo serviva l'ingiunzione di «non parlare a bocca piena».
Nessuna idealizzazione però in questa intima connessione tra il mangiare e il parlare: quando ci si siede a tavola, mescolato al desiderio e al bisogno di mangiare, c'è anche un sentimento di aggressività verso l'altro; oppure c'è il mutismo ostile che trasforma lo stare insieme in fastidio reciproco. Occorre disciplina, consapevolezza dell'aggressività che ci abita: si tratta di evitare di parlare spinti da ciò che emotivamente ci domina, di vigilare sull'umanizzazione del nostro rapporto con il cibo e con la parola. Non a caso la sapienza monastica prescrive di iniziare i pasti in silenzio, dopo una preghiera di benedizione e ringraziamento. È un atteggiamento che andrebbe ripreso anche fuori da un contesto religioso, trovando adeguate modalità per porre una distanza tra sé e il cibo, per prendere coscienza di non essere i soli o i «primi» attorno a quella tavola e, di conseguenza, vigilare sulle parole che escono dalle nostre labbra.
Nella tradizione contadina che ho conosciuto nella mia infanzia e adolescenza, il capofamiglia quando tornava dal lavoro in campagna voleva che la tavola fosse pronta e subito si sedeva assieme ai figli, mentre le donne di casa - che fossero, moglie, nonna o «zietta» - stavano ai fuochi. Come un animale che cerca di impossessarsi del territorio, il padre cominciava subito ad aggredire: i figli «perché se lo meritavano», la moglie perché era in ritardo o aveva trascurato qualche particolare... C'era sempre una ragione per affermare il predominio del padrone di casa! Poi, dopo i primi bocconi e il primo bicchiere di vino, cominciava a parlare, lasciando cadere 1'aggressività rituale dell'inizio. La parola fungeva da mediazione tra le vicende della famiglia e la vita sociale del paese: si rileggevano gli eventi conosciuti, le storie già raccontate, le notizie apprese nelle occasioni più disparate; si parlava degli assenti, si esprimevano giudizi sul cibo, su come era stato cucinato, si metteva a confronto la bontà dei vari alimenti...

  • L'arte di ascoltare e dialogare
  • vigilare sul nostro parlare
  • il potere prende (e tiene) la parola


MAI SENZA L'ALTRO.   i volti...rivolti                                                 parte III


Allora come oggi, se è degna di tal nome, la tavola si accende quando ci sono invitati. Invitare qualcuno - parenti, amici, conoscenti... - è un atto di grande fede, di profonda fiducia nell'altro: significa infatti chiamarlo, eleggerlo, distinguerlo tra gli altri conoscenti; significa confessare il desiderio di stare insieme, di ascoltarsi, di conoscersi maggiormente. Chi non pratica questa ospitalità vive in angustie, vive «poco», mi verrebbe da dire. Non conosce la gioia che è maggiore nell'invitare che nell'essere invitati. Occorrerebbe saper invitare senza mai pensare alla reciprocità: l'atto in sé è ricompensa.
Poter dire in verità «la mia casa è aperta, la mia tavola non è solo per me e per i miei» significa aprirsi agli altri, dar loro fiducia, disporsi a lasciarsi arricchire dalla loro presenza, a nutrirsi di sapienza e di amicizia, a veder dischiudersi nuovi orizzonti. Non si tratta di fare della propria tavola un «salotto» che esibisca lo status raggiunto, bensì di saper vivere la fraternità, lo stare insieme, l'amicizia gratuita. Quando c'è un ospite a tavola cresce la capacità di benedizione e di gratitudine, cosi che quando giunge il momento dei saluti alla fine del pasto ci si apre a una promessa orientata al futuro: ci sarà ancora un domani per ritrovarci, avremo ancora nuove possibilità di incontro...
La tavola è il luogo attorno al quale l’uomo ha cominciato a fare amicizia, a creare società, a stipulare alleanze. È atto comunionale per eccellenza. Mangiare è anche il comportamento umano più carico di simbolismo. Mangiare insieme, offrire il proprio cibo all’ospite, significa far entrare l’altro in una comunione profondissima con noi. Infatti, “noi mangiamo ciò che nostra madre ci ha insegnato a mangiare. Non solo – ci ricorda Leo Moulin – ma tale cibo ci piace e continuerà a piacerci per tutta la vita, perché noi mangiamo con i nostri ricordi … Anzi, noi mangiamo i nostri ricordi, perché ci danno sicurezza, conditi come sono di quell’affetto e di quella ritualità che hanno caratterizzato i nostri primi anni di vita”.

  •   Invitare l'altro alla mia tavola...
  •   Chi sperimenta l'ospitalità costruisce il futuro...
  •   Mangiare per entrare in comunione...

Nessun commento:

Posta un commento